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FARSI STORIA

FARSI STORIA

ESERCIZI SPIRITUALI DI AVVENTO 2018

FARSI STORIA

Mercoledì 28 novembre - 3° incontro

Brani tratti dal libro: “Ragazzi di vita” di Pierpaolo Pasolini

«A Genè, nun rivenghi de qua-a?» continuava intanto a ridare con voce accorata Mariuccio. Genesio a quei richiami se ne stava zitto; poi tutt’a un botto si gettò in acqua, nuotò fino al correntino, ma però tornò subito indietro e si risiedette ammusolito sotto la scarpata e il muraglione.

«Nun torni a Genè?» ripeté Mariuccio, deluso da com’erano andate le cose.

«Rimano de qqua ancora un pochetto», disse di laggiù Genesio, «se sta tanto bbene de qqua!»

«Daje, traversa!» insistette Mariuccio con le corde del collo che gli si gonfiavano per lo sforzo che faceva a gridare. Pure Borgo Antico si mise a chiamarlo, e Fido abbaiava saltando di qua e di là, ma col muso sempre rivolto all’altra sponda, come se chiamasse pure lui.

Genesio allora s’alzò all’impiedi, si stirò un pochetto, come non usava fare mai, e poi gridò: «Conto fino a trenta e me butto.» Stette fermo, in silenzio, a contare, poi guardò fisso l’acqua con gli occhi che gli ardevano sotto l’onda nera ancora tutta ben pettinata; infine si buttò dentro con una panciata. Arrivò nuotando alla svelta fin quasi al centro, proprio nel punto sotto la fabbrica, dove il fiume faceva la curva svoltando verso il ponte della Tiburtina. Ma lì la corrente era forte, e spingeva indietro, verso la sponda della fabbrica: nell’andata Genesio era riuscito a passare facile il correntino, ma adesso al ritorno era tutta un’altra cosa. Come nuotava lui, alla cagnolina, gli serviva a stare a galla, non a venire avanti: la corrente, tenendolo sempre nel mezzo, cominciò a spostarlo in giù verso il ponte.

«Daje, a Genè», gli gridavano i fratellini da sotto il trampolino, che non capivano perché Genesio non venisse in avanti, «daje che se n’annamo!»

Ma lui non riusciva a attraversare quella striscia che filava tutta piena di schiume, di segatura e d’olio bruciato, come una corrente dentro la corrente gialla del fiume. Ci re-stava nel mezzo, e anziché accostarsi alla riva, veniva trascinato sempre in giù verso il ponte. Borgo Antico e Mariuccio col cane scapitollarono giù dalla gobba del trampolino, e cominciarono a correre svelti, a quattro zampe quando non potevano con due, cadendo e rialzandosi, lungo il fango nero della riva, andando dietro a Genesio che veniva portato sempre più velocemente verso il ponte. Così il Riccetto, mentre stava a fare il dritto con la ragazza che però continuava, confusa come un’ombra, a strofinare le lastre, se li vide passare tutti e tre sotto i piedi, i due piccoli che ruzzolavano gridando tra gli sterpi, spaventati, e Genesio in mezzo al fiume, che non cessava di muovere le braccine svelto svelto nuotando a cane, senza venire avanti di un centimetro. Il Riccetto s’alzò, fece qualche passo ignudo come stava giù verso l’acqua, in mezzo ai pungiglioni e lì si fermò a guardare quello che stava succedendo sotto i suoi occhi. Subito non si capacitò, credeva che scherzassero; ma poi capì e si buttò di corsa giù per la scesa, scivolando, ma nel tempo stesso vedeva che non c’era più niente da fare: gettarsi a fiume lì sotto il ponte voleva proprio dire esser stanchi della vita, nessuno avrebbe potuto farcela. Si fermò pallido come un morto. Genesio ormai non resisteva più, povero ragazzino, e sbatteva in disordine le braccia, ma sempre senza chiedere aiuto. Ogni tanto affondava sotto il pelo della corrente e poi risortivi un poco più in basso; finalmente quand’era già quasi vicino al ponte, dove la corrente si rompeva e schiumeggiava sugli scogli, andò sotto per l’ultima volta, senza un grido, e si vide solo ancora per un poco affiorare la sua testina nera.

Il Riccetto, con le mani che gli tremavano, s’infilò in fretta i calzoni, che teneva sotto il braccio, senza più guardare verso la finestrella della fabbrica, e stette ancora un po’ li fermo, senza sapere che fare. Si sentivano da sotto il ponte Borgo Antico e Mariuccio che urlavano e piangeva-no, Mariuccio sempre stringendosi contro il petto la canottiera e i calzoncini di Genesio; e già cominciavano a salire aiutandosi con le mani su per la scarpata.

«Tajamo, è mejo», disse tra sé il Riccetto che quasi piangeva anche lui, incamminandosi in fretta lungo il sentiero, verso la Tiburtina; andava anzi quasi di corsa, per arrivare sul ponte prima dei due ragazzini. «Io je vojo bbene ar Riccetto, sa!» pensava. S’arrampicò scivolando, e aggrappandosi ai monconi dei cespugli su per lo scoscendimento coperto di polvere e di sterpi bruciati, fu in cima, e senza guardarsi indietro, imboccò il ponte. Poté tagliare inosservato, perché, sia nella campagna che si stendeva intorno abbandonata, verso i mucchi di casette bianche di Pietralata e Monte Sacro, sia per la Tiburtina, in quel momento, non c’era nessuno; non passava neppure una macchina o uno dei vecchi autobus della zona; in quel gran silenzio si sentiva solo qualche carro armato, sperduto, dietro i campi sportivi di Ponte Mammolo, che arava col suo rombo l’orizzonte.”

 LETTURA BREVE

Lc. 4, 16-30

16Si recò a Nazaret, dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere. 17Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto:
18Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l’unzione,
e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio,
per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista;
per rimettere in libertà gli oppressi,
19 predicare un anno di grazia del Signore.
20Poi arrotolò il volume, lo consegnò all’inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui. 21Allora cominciò a dire: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi». 22Tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è il figlio di Giuseppe?». 23Ma egli rispose: «Di certo voi mi citerete il proverbio: Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fàllo anche qui, nella tua patria!». 24Poi aggiunse: «Nessun profeta è bene accetto in patria. 25Vi dico anche: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; 26ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Sarepta di Sidone. 27C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro».
28All’udire queste cose, tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno; 29si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio. 30Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò.

Siamo giunti alla fine del nostro itinerario di tre sere. Questa sera vi propongo una riflessione a partire dal romanzo scritto da Pasolini, un artista di cui, nonostante il suo pensiero per certi versi non sia sempre condivisibile da parte di un cattolico, possiamo certamente accogliere la testimonianza profetica almeno per quanto riguarda la capacità di dar voce ai poveri, alle periferie, agli ultimi e ai dimenticati.

Mentre stiamo riflettendo sull’incarnazione, mi sembra interessante dare spazio ad una testimonianza letteraria come quella di Pasolini. Friulano di nascita, Pasolini si è talmente inserito nella dinamica della vita di Roma e delle sue periferie da assorbire completamente il linguaggio e la vita del popolo. Anche il narratore parla in “romanesco” proprio perché c’è una sorta di immersione, sottomissione alla cultura in cui egli si inserisce. Ma mettiamo, almeno per ora, da parte Pasolini.

Questa sera vi chiedo un po’ di pazienza in più perché vi proporrò un esercizio di elasticità mentale abbastanza complesso.

Guardiamo anzitutto al vangelo che abbiamo letto: di che cosa si tratta in questo vangelo? C’è la prima uscita pubblica di Gesù: Gesù ormai diventato adulto, proclama la parola di fronte al suo popolo, apre il rotolo del profeta Isaia e non soltanto pronuncia le parole come qualsiasi ragazzo arrivato all’età matura avrebbe fatto ma incomincia a commentare la parola attribuendo queste parole come dirette e riferite a sé. Tutti inizialmente lo guardano con stupore. Il problema è che il suo commento continua, non semplicemente in riferimento al profeta Isaia, ma citando alcune pagine dell’Antico Testamento dove persone pagane, come una vedova di Sarepta e Naaman il Siro, si erano mostrate più ricche di fede che non il popolo di Israele. Di fronte a questa lettura inedita, non semplicemente originale e creativa, ma anche profondamente provocatoria, l’uditorio si scatena e, dallo stupore e dall’ammirazione nei confronti delle parole di Gesù, diventa assolutamente aggressivo fino a tentare di ucciderlo.

Attraverso questo vangelo vediamo e seguiamo i primi passi di Gesù, il Figlio di Dio, la seconda persona della Trinità, che, incarnandosi, si fa Storia con la esse maiuscola, ma si fa Storia diventando anzitutto storia con la esse minuscola ovvero qualcuno di cui almeno si può raccontare, o narrarne addirittura la biografia.

Dio traccia i segni della sua presenza nella biografia di tutti noi, lo sappiamo, ne siamo coscienti e questo avviene a maggior ragione a proposito del Figlio di Dio: nel momento in cui egli, entrando nel mondo e parlando, comincia indirettamente il racconto della sua vita, divenendo per gli altri non semplicemente “Parola” nel senso di una cosa che si deve ricevere senza interagire con essa; piuttosto una Parola intesa come racconto, così come la suggestione delle pagine letterarie alluse in queste sere dovrebbe avervi fatto percepire: il racconto lo si “comprende” solo entrandoci e partecipandovi attivamente. Gesù si fa Parola nel senso che si fa anzitutto “storia” di modo che le persone possano entrare tutte nella dinamica della sua biografia.

Dio sa dipingere le nostre vite nel quadro di vicende già scritte.

Cosa fa Gesù? Gesù apre un rotolo della legge, proclama una parola pronunciata secoli prima e la attualizza in riferimento alla sua persona. Così funziona la Scrittura. Quando leggiamo la Parola di Dio abbiamo di fronte sempre due possibilità: quella di usarla o meglio di adoperarla in maniera indebita o quella di lasciarci coinvolgere da essa. Quando siamo realmente autentici e non cerchiamo una giustificazione alle nostre paure piuttosto che ai nostri errori ma ci lasciamo davvero mettere in discussione dalla Parola di Dio, essa comincia a parlarci nel profondo di noi, tanto che noi ci sentiamo inseriti nel quadro di senso disegnato dalla Parola stessa; motivo per cui le vicende dei profeti, dei patriarchi o degli apostoli cominciano a parlarci tanto che quasi incominciamo a leggere la nostra vita in riferimento alla loro e vediamo in esse come in noi l’opera di Dio come in filigrana: intendiamoci, Mosé è Mosè, Abramo è Abramo, a loro sono successe cose straordinarie e difficilmente ripetibili. Ma un po’ dell’esperienza di fede di Mosè o quella della prova di Abramo le sentiamo nostre; anche se a noi non viene chiesto di sacrificare nostro figlio, molte volte ci sentiamo messi alla prova da Dio in persona e non semplicemente dalle fatiche dell’esistere. Perciò riandare alle vicende di chi ci ha preceduto e di cui la Sacra Scrittura ci parla, permette di cogliere un senso più profondo della nostra esistenza, direi quasi un senso “sacro”. La Scrittura, così come fa Gesù, ci permette dunque di leggere le tracce della presenza di Dio nella nostra biografia.

Le nostre vite, come quella dei santi, incominciano a parlare - perché non parlano semplicemente le parole - in qualche modo, anche con le nostre storture, esse urlano la Parola di Dio che si sta facendo carne nella nostra vita e nella nostra esistenza. Se non al modo di Gesù almeno al modo dei personaggi della Bibbia. Personalmente io mi sento benedetto tutte le volte che incontro la figura di Pietro, soprattutto quando incontro la descrizione del suo rinnegamento e la descrizione dello sguardo di misericordia che, secondo il vangelo di Luca, Gesù ha rivolto a Pietro proprio nel momento più tragico del suo rinnegamento. Leggere le nostre dinamiche umane, psicologiche e spirituali, con gli occhi degli apostoli ci permette di comprendere ancora di più la vicinanza di Dio alla nostra vita.

Il tema dell’imitazione dei santi o addirittura dell’imitazione di Cristo è un cardine della spiritualità cristiana in genere. L’Imitazione di Cristo è, nel suo genere, una delle opere più significative che ha dato vita da una catena tradizione testuale di devozione che ha segnato profondamente l’Occidente cristiano. È un libretto che vi consiglio di leggere perché ogni buon cristiano dovrebbe conoscerlo. Si rischia molto, però, se lo si legge in senso volontaristico o moralistico, come se noi dovessimo a tutti i costi sforzarci di vivere come Gesù ha vissuto. Questo è pressoché impossibile perché: primo, non siamo figli di Dio così come lo è lui; secondo, la nostra volontà anche se forte e eroica, in ogni caso non riuscirà mai a giungere al livello di Cristo. Ma l’imitazione di Cristo è comunque possibile, sebbene solo attraverso una dinamica del tutto interiore: i santi, soprattutto i mistici come ad esempio Teresa d’Ávila, ci mostrano come l’imitazione di Cristo cominci là dove noi ammettiamo la nostra debolezza, il nostro peccato e permettiamo a Dio di incominciare ad abitare nel profondo di noi. L’imitazione di Cristo è la risposta che la presenza di Cristo nella nostra vita e nel nostro cuore genera; è il frutto del prendere dimora di Dio in noi secondo la promessa che Gesù ha fatto nel Vangelo di Giovanni “io e il Padre prenderemo dimora presso di voi”. Da qui nasce l’imitazione di Cristo: solo se noi lasciamo che il nostro cuore - nell’Eucarestia, nell’adorazione, nella preghiera silenziosa, nell’impegno per i poveri - sia sempre più dimora di Dio. Allora l’imitazione ci verrà naturale, magari non ce ne accorgeremo, e saranno gli altri a dirci che siamo fedele immagine e somiglianza di Dio, immagine e somiglianza di Cristo, icona di Dio in questo mondo.

Dunque, anche noi possiamo diventare Storia con la esse maiuscola se lasciamo che le nostre storie siano trasformate da Dio. Tuttavia, c’è un rischio anche qui, perché mentre ci rifacciamo alla vita dei santi e alla vita stessa di Gesù per leggere le categorie e le dinamiche della nostra esistenza di tutti i giorni, non dobbiamo perdere di vista la nostra originalità. C’è un bellissimo detto degli ebrei Chassidim che dice: “alla fine dei tempi, quando ti troverai di fronte a Dio non ti verrà chiesto se sei stato Abramo, Mosé, o Giacobbe, ti verrà chiesto se sei stato te stesso”. È una cosa bellissima quanto questo detto ci ricorda: se Abramo, Giacobbe, Isacco, o chiunque nell’Antico Testamento o nel Nuovo Testamento ci può permettere di leggere alcune dinamiche spirituali della nostra stessa esistenza, comunque ognuno di noi è chiamato a essere profondamente sé stesso, è chiamato a esprimere quel di più che soltanto la sua storia può portare a questo mondo.

Le vicende dei santi bisogna conoscerle, bisogna farsi amici dei santi, perché non semplicemente ripropongono la vita apostolica di sempre, ma aggiungono sempre un qualcosa di più attraverso la scintilla della loro personale dedizione a Dio. Dio manifesta un tratto della sua originalità proprio nella dinamica specifica della vita di un santo. Dio è geloso degli idoli ma non dei santi. Dio non è geloso della persona umana che decide di lasciarsi abitare da lui, anzi preferisce fare un passo indietro perché il santo venga glorificato in Suo nome. Talvolta la teologia—e in questo Papa Francesco ci ha insegnato a riconoscerlo—ha sottovalutato la devozione popolare nei confronti dei santi, perché non sempre l’ha compresa. E’ come se noi avessimo pensato per decenni, specie nella fase postconciliare, che il popolo di Dio amando i santi in fondo non amasse veramente Gesù o la Trinità. Certo, c’è pur sempre rischio di idolatrare i santi e questo va osteggiato. Molto più spesso, però, il popolo di Dio nella sua immediatezza e semplicità è stato capace di vedere una luce unica nella vicenda dei santi, quell’originalità che Dio è capace di mostrare nella storia di un santo e solo in quella. Farsi amici dei santi non significa dimenticare la gerarchia degli articoli di fede, non significa non adorare la Trinità o non capire il ruolo unico della mediazione di Cristo, ma piuttosto constatare come Dio ci accompagna passo dopo passo in questa Storia, continuando a parlarci in maniera originale e unica.

Ieri abbiamo affrontato una storia a partire dalla sua fine: la vicenda del principe di Salina, il Gattopardo. L’abbiamo vista in retrospezione partendo da questa l’intuizione: le storie per essere belle, per essere raccontabili devono avere una fine, devono avere una meta verso cui camminare altrimenti i singoli passaggi perdono il senso. Con la riflessione di questa sera siamo chiamati a fare, per certi versi, un percorso inverso: le storie hanno senso non soltanto perché hanno una fine ma anche perché si comincia a camminare da un punto iniziale verso quella stessa fine e quel fine. Perciò ora facciamo il procedimento al contrario e dirigiamoci idealmente verso l’inizio, verso il Natale che non è altro che l’inizio, il grande inizio della storia di Cristo e di certo il grande inizio di una Storia che è già in mezzo a noi ma è ben più grande di noi.

Che cosa dice della storia di Gesù e della persona di Gesù il suo inizio, l’inizio della sua vita, il suo Natale? Egli si è fatto bambino, si è fatto corpo, e qui mi riallaccio alla prima serata, un corpo che sana, un corpo che celebra e un corpo che si dona. Gesù facendosi bambino, però, percorre al contrario questo itinerario che abbiamo ampiamente illustrato: come prima cosa egli si dona, poi permette agli altri di celebrare la sua venuta (pensate ai pastori che sono i primi a ricevere l’annuncio e sono tutti pieni di gioia o pensate agli angeli in cielo che cantano la gloria di Dio); infine, Gesù, che si è donato bambino e ha permesso così agli altri di celebrare la vita, ha trasformato la realtà attorno a sé, diventando una presenza che sana. Non limitiamoci a contemplare la vicenda del Natale di Gesù: basterebbe rifarci alla dinamica di una famiglia segnata dalla fatica o dal lutto che improvvisamente si trovi a accogliere una nuova vita. Quante volte ho visto nel mio ministero la benedizione del Signore discendere su alcune storie umane che ho accompagnato, segnate da un lutto e poi raggiunte dal dono magnifico della vita di un bambino che, seppur non cancella il momento tragico del distacco con un nostro caro è tuttavia capace di dare nuova energia, nuova linfa e nuova freschezza (potremmo dire con le immagini di ieri, una nuova anima!) ad un’intera famiglia. Il miracolo dei bambini!

Proprio in questi giorni abbiamo ascoltato la notizia del calo sempre più drammatico delle nascite in Italia. Il nostro è un popolo non semplicemente vecchio ma un popolo che non vuole più aprirsi alla vita per tante ragioni, difficoltà o fobie; ma è anche un popolo che dove c’è la vita come quella dei bimbi immigrati, non la sa riconoscere, non la sa rispettare e valorizzare e guarda questi bimbi che rischiano di morire in mare, prima di raggiungere la nostra terra, come se fossero dei demoni che ci strappano la nostra vita e la nostra sicurezza. Non siamo capaci come italiani di dare dei diritti fino in fondo a esseri inermi che magari scappano da guerre o situazioni micidiali.

Il bambino Gesù nella mangiatoia non si mostra come un bimbo qualsiasi, ma come un bambino povero e diseredato: egli ci invita ad aprire gli occhi verso quei bambini poveri e diseredati senza i quali non c’è futuro per il mondo intero e forse anche per noi. Se vogliamo uscire dalle nostre manie e fobie dobbiamo aprire il cuore soprattutto alla presenza di coloro che provengono da parti del mondo tanto martoriate e, soprattutto, prestare l’orecchio al bisogno dei più piccoli.

Ma per noi, cosa vuol dire questo inizio della vicenda terrena di Gesù, questo farsi bambini? Quando pensiamo all’essere bambini in senso cristiano non possiamo non ricordare il nostro Battesimo. La compresenza tra l’età infantile e il Battesimo che la prassi occidentale ha promosso è, a livello simbolico, molto significativa. Gesù nel Vangelo di Giovanni ci insegna che senza rinascere dall’alto, non possiamo entrare nel Regno dei cieli. Il Battesimo non è altro che la possibilità di ritornare bambini, di ritornare innocenti, di ricominciare da capo quando la storia va tutta nella direzione della corruzione, del disastro, della fine. C’è sempre una possibilità che Gesù stesso è venuto a portarci. E la possibilità è quella di rinascere nuovamente e solo il Battesimo ci permette questa ripartenza. Cioè, attraverso il Battesimo è come se ritornassimo nel grembo della madre terra, ci lasciassimo purificare dal sacrificio di Cristo per poi rinascere nuovamente. Quando noi accediamo al sacramento della Confessione rinnoviamo il nostro Battesimo perché ricominciamo sempre da zero, da capo, sebbene abbiamo una storia che ci precede e che un po’ ci condiziona, con il peso di tutti gli errori che abbiamo fatto e che dobbiamo gestire e a cui dobbiamo qualche volta rendere conto. Ma il sacramento ristabilisce in noi un’energia nuova che viene dall’amore stesso di Dio e dalla sua misericordia. Il Battesimo è la possibilità per noi di fare Natale tutti i giorni, di ritornare bambini, di ritornare in qualche modo se non innocenti in assoluto, almeno più innocenti di prima.

Torniamo ora a Pasolini. Perché ho scelto di leggere questo brano? Perché questo racconto pieno di vitalismo, un racconto che soltanto alla fine si capisce avere - nella storia corale di diversi ragazzi di cui si seguono le svariate vicende - un protagonista in particolare. Si tratta di diseredati che vivono quasi da briganti in una periferia caotica, confusa e inquinata. La cosa interessante è che Pasolini pone continuamente l’accento sulla questione ecologica e anche in questo è profetico: ad esempio, quando si descrive il fiume nel quale i ragazzi si bagnano e vanno a divertirsi: è un fiume lambito da una fabbrica che lo inquina e, bagnandosi, i ragazzi mettono continuamente a rischio la loro salute. Il fiume di cui abbiamo letto, nel quale avviene la fine tragica del ragazzino che volevo mostrare di saper nuotare, in accordo con la visione tragica e pessimistica della storia che ha Pasolini, diventa metafora dello scorrere delle cose verso la loro dissoluzione definitiva; non uno scorrere qualsiasi perché su quel fiume naviga tutta la corruzione di questo mondo, che Roma, la nuova Babilonia, testimonia e ripresenta. Proprio in quel fiume cerca di nuotare un bambino ma egli soccombe, mentre gli innocenti suoi fratelli cercano in qualche modo di attirare l’attenzione dei più grandi. Chi sta lì a osservare questa scena? Il protagonista principale che soltanto alla fine si mostrerà essere veramente il primus inter pares dell’intero racconto: il Ricetto, un ragazzo pieno di energia e risorse che diventa presto delinquente e ne combina di tutti i colori durante la sua vita. Egli, vedendo questo ragazzetto sparire tra le acque del fiume, sebbene sconvolto, pensa: “ma io gli voglio bene a Ricetto”, come a dire che, se non si è buttato, è perché aveva coscienza che rischiava di morire e non se l’è sentita neanche di provarci, rimanendo paralizzato sulla riva del fiume.

Ora forzando un poco la logica secondo cui Pasolini ha scritto il suo libro, vi propongo la lettura di un altro brano. All’inizio del romanzo c’è una pagina parallela a quanto abbiamo già letto. Qui il Ricetto è ancora molto giovane, è un ragazzino. Siamo non più sulla riva dell’Aniene ma su quella del Tevere, in un tratto decisamente molto pericoloso. Ricetto vede una rondine che sta affogando nel fiume e si tuffa per salvarla: lui che era ancora bambino, solo per salvare una piccola creaturina, non esita a buttarsi nel fiume, rischiando così la sua vita.

Il Riccetto guardò verso la rondine, che si agitava ancora, a scatti, facendo frullare di botto le ali. Poi senza dir niente si buttò in acqua e cominciò a nuotare verso di lei.
Gli altri si misero a gridargli dietro e a ridere: ma quello dei remi continuava a remare contro corrente, dalla parte opposta. Il Riccetto s’allontanava, trascinato forte dall’acqua: lo videro che rimpiccioliva, che arrivava a bracciate fin vicino alla rondine, sullo specchio d’acqua stagnante, e che tentava d’acchiapparla. «A Riccettooo», gridava Marcello con quanto fiato aveva in gola, «perché non la piji?» Il Riccetto dovette sentirlo, perché si udì appena la sua voce che gridava: «Me pùncíca!» «Li mortacci tua», gridò ridendo Marcello. Il Riccetto cercava di acchiappare la rondine, che gli scappava sbattendo le ali e tutti due ormai erano trascinati verso il pilone dalla corrente che lì sotto si faceva forte e piena di mulinelli. «A Riccetto», gridarono í compagni dalla barca, «e lassala perde!» Ma in quel momento il Riccetto s’era deciso ad acchiapparla e nuotava con una mano verso la riva. «Tornado indietro, daje», disse Marcello a quello che remava. Girarono. Il Riccetto li aspettava seduto sull’erba sporca della riva, con la rondine tra le mani. «E che l’hai sarvara a ffà», gli disse Marcello, «era così bello vedella che se moriva!» Il Ricetto non gli rispose subito. «È tutta fracica», disse dopo un po’, «aspettamo che s’asciughi!» Ci volle poco perché s’asciugasse: dopo cinque minuti era là che rivolava tra le compagne, sopra il Tevere, e il Riccetto ormai non la distingueva più dalle altre.”

Solo uno che sa farsi bambino può trovare il coraggio di tuffarsi nella corrente sporca della Storia, senza provare paura e senza mettere a tacere la Speranza.

  • E tu dove hai lasciato la tua innocenza?
  • Sei cosciente che grazie al dono del Battesimo, al rinnovamento che la Confessione ci offre, la misericordia del Signore può permetterti di recuperare il senso di innocenza che avevi da bambino, salvando la tua vita e, con essa, quella degli altri e più radicalmente dando una svolta a questa Storia che corre veloce verso la dissoluzione?
  • Tu su che riva stai?

Buon Natale!!!