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Il Padre Nostro (5)

Il Padre Nostro (5)

CATECHESI 2017-18

Il Padre Nostro

giovedì 22 febbraio - 5° incontro – Il Padre Nostro

Nelle catechesi precedenti abbiamo esaminato la prima parte del Padre Nostro: “Padre Nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra”. Poi abbiamo iniziato la seconda parte: “dacci oggi il nostro pane quotidiano”. Questa sera ci soffermiamo su un altro momento della preghiera: “rimetti a noi i nostri debiti, come noi, li rimettiamo ai nostri debitori”. Nella prossima catechesi affronterò “non ci abbandonare nella tentazione” e “liberaci dal male”. Sono quattro invocazioni che riguardano la nostra vita, dopo le tre invocazioni iniziali. Questa è la struttura del Padre Nostro che cerchiamo di illuminare nelle sue varie parti nella versione di Matteo (6, 9-13), che è una redazione più antica di quella di Luca (11, 3-4).

Con l’invocazione: “rimetti a noi i nostri debiti” noi riprendiamo una tematica molto nota e molto approfondita l’anno scorso e cioè il tema della misericordia e del perdono. Letta nella sua duplicità “rimetti a noi, come noi li rimettiamo” possiamo cogliere un invito a guardare fuori di noi, a guardare il nostro prossimo e al tempo stesso a guardarci dentro e a chiedere perdono. In questa invocazione c’è una consapevolezza di quello che siamo, dei nostri limiti.

Il termine che viene usato da Matteo, “debiti”, sembra una parola apparentemente poco religiosa, sembra di più una parola legata ad un linguaggio giuridico o finanziario. La redazione di Luca, invece, usa un’altra parola: “rimetti a noi i nostri peccati”. Così facendo Luca cerca di adattare il linguaggio ad un uditorio che conosceva meno il vocabolario semitico perché la parola usata da Matteo aveva un’origine finanziaria ma via via aveva assunto un significato religioso.

Il sottofondo di questa parte del Padre Nostro, lo troviamo nel contesto dell’annuncio di Gesù: questa preghiera si situa al centro del discorso della montagna, il discorso delle beatitudini. Non è soltanto l’annuncio del Regno nuovo che libera l’uomo ma anche l’annuncio per i poveri e per i peccatori della misericordia di Dio.

Nel Vangelo ritroveremo questa parola parecchie volte, ne cito solo alcune:

  • Lc. 15, 4-7 la parabola della pecora smarrita: [7]Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.
  • Lc. 15, 8-10 la parabola della dramma perduta: [10]Così, vi dico, c'è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
  • Lc. 15, 11-32: la parabola del figliol prodigo.

Il tema della misericordia è sicuramente al centro del messaggio evangelico.

L’esperienza del perdono e della misericordia, che noi domandiamo e viviamo, è un’esperienza che siamo chiamati a rivivere.

Innanzitutto, proviamo a pensare: come viviamo noi l’esperienza del perdono?

Tante volte riusciamo a vivere questa esperienza, però spesso la viviamo come una sorta di  grande concessione: “ti perdono, mettiamoci una pietra sopra, voltiamo pagina, chiudiamo un occhio…”. Queste espressioni richiamano lo sforzo, la fatica, e anche una sorta di concessione.

Il Vangelo usa un altro tipo di impostazione, “ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”.

La cosa straordinaria è che Dio prova gioia nel perdonare, prova gioia nell’avere misericordia, prova gioia nel vedere un peccatore che ricomincia. Per noi è una concessione, diamo un’altra possibilità ma se l’altro non cambia torniamo indietro. Dio è colui che ha gioia “Così, vi dico, c'è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».”

Questa gioia viene sottolineata dal fatto che Gesù frequenta i peccatori e li frequenta volentieri, non è uno sforzo per lui, come nel caso della chiamata di Matteo:

Mc. 2 15: [15]Mentre Gesù stava a mensa in casa di lui, molti pubblicani e peccatori si misero a mensa insieme con Gesù e i suoi discepoli; erano molti infatti quelli che lo seguivano. [16]Allora gli scribi della setta dei farisei, vedendolo mangiare con i peccatori e i pubblicani, dicevano ai suoi discepoli: «Come mai egli mangia e beve in compagnia dei pubblicani e dei peccatori?». [17]Avendo udito questo, Gesù disse loro: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori».

Questa gioia si traduce in uno stare volentieri a tavola nel mangiare con i peccatori (non è solo un colloquio, una chiacchierata, un caffè…). Gesù frequenta la casa dei peccatori ed è considerato amico dei peccatori.

Vediamo un altro passo: Mt. 11, 16-19: [16]Ma a chi paragonerò io questa generazione? Essa è simile a quei fanciulli seduti sulle piazze che si rivolgono agli altri compagni e dicono: [17]Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto. [18]E' venuto Giovanni, che non mangia e non beve, e hanno detto: Ha un demonio. [19]E' venuto il Figlio dell'uomo, che mangia e beve, e dicono: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori. Ma alla sapienza è stata resa giustizia dalle sue opere».

 

Chi erano questi peccatori al tempo di Gesù? Erano tre categorie diverse:

  • i Giudei, gli appartenenti al popolo di Israele che potevano sbagliare e attraverso la penitenza potevano sperare nel perdono; sono le persone a cui si rivolge Giovanni Battista quando li invita alla conversione e al battesimo di penitenza;
  • i Gentili, non appartenenti al popolo di Israele; erano gli stranieri, quelli che stavano in Galilea, quelli che stavano nelle periferie dove nessun ebreo vorrebbe abitare, erano i peccatori fuori dalla misericordia di Dio, emarginati;
  • gli impuri e i maledetti, cioè i Giudei diventati come i Gentili; questi erano considerati dei traditori, era la categoria peggiore perché, pur essendo del popolo eletto, conducevano una condotta di vita considerata perduta: le prostitute, i lebbrosi, i pastori, i pubblicani. Per questi, nella logica del popolo di Israele, non c’era speranza di misericordia, erano dei condannati viventi, erano portatori di una colpa che veniva dai loro padri, erano tenuti lontani, era meglio non toccarli.

Noi sappiamo quante volte Gesù si sia rivolto ai “giusti” affermando che questo tipo di persone, i peccatori: “vi precederanno nel regno dei cieli”. Per esempio, l’evangelista Matteo era un pubblicano chiamato direttamente da Gesù alla conversione.

Quindi “rimetti a noi i nostri debiti” significa riconsiderare l’immagine di Dio, cioè ritornare alla immagine di Dio raccontata da Gesù, che sovverte gli schemi della religiosità tradizionale, che non conosce ostacoli per far passare la misericordia di Dio, e concede a tutti con gioia la possibilità di ricominciare.

Dire queste parole nel Padre Nostro è un invito a guardare fuori di noi e a guardarci dentro. Viviamo in un mondo e in una cultura che tutto giustifica, se non addirittura annulla la responsabilità individuale ma, se ci guardiamo dentro con onestà, abbiamo la percezione di non essere mai perfettamente a posto, percepiamo e misuriamo la nostra imperfezione, il nostro essere peccatori ma soprattutto percepiamo il fatto che non siamo mai pienamente capaci, non tanto di non fare il male ma, di non fare il bene che potremmo fare e dovremmo fare. Il grande peccato dei nostri tempi penso che sia soprattutto un peccato di omissione.

Noi viviamo in un mondo dove la prima preoccupazione è di pensare a noi stessi, a lasciare che il mondo, gli altri, la storia, l’ambiente vadano per i fatti loro, dove arriviamo a dire che non ci interessa di quello che succederà dopo di noi.

Credo che il peccato di omissione, nella nostra formazione, sia stato lasciato un po’ in ombra. Abbiamo spesso la consapevolezza di quello che abbiamo fatto e non dovevamo fare, ma raramente abbiamo la percezione di quello che potevamo fare e non abbiamo fatto. Spesso nelle confessioni sentiamo dire: “non faccio niente di male, non rubo, non ammazzo nessuno…” Ma la domanda dovrebbe essere: “e di bene che cosa faccio?”

Così facendo viene a mancare quella grande “dedizione” o atteggiamento esistenziale che ci chiede il Vangelo che si sintetizza nel desiderio di recuperare e di aggiustare le cose della vita. In questa società dell’uso-consumo-butto via, non c’è la preoccupazione di aggiustare, recuperare le relazioni in cui ho avuto un dissidio, non riparo una dimenticanza e, se una cosa o una persona non mi va, semplicemente la taglio fuori.

Vi leggo un piccolo passaggio di un’intervista fatta al Papa da un prete, Marco Pozza cappellano del carcere di Padova, sul Padre Nostro. Commentando la frase “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”, questo prete racconta: “Qui mi viene in mente un mio detenuto che la notte di Natale dell’anno scorso, stava leggendo la preghiera dei fedeli dove era scritto: preghiamo Dio Salvatore, lui ha fatto un piccolo errore e ha detto: preghiamo Dio “saldatore”, e mi è venuta in mente l’immagine di mio papà con la saldatrice: ci sono due pezzi rotti, il papà non li butta via ma li ripara con la saldatrice. Mi sono detto: guarda i poveri come hanno tradotto la misericordia di Dio!

È molto bello questo esempio di Dio saldatore, Dio che recupera, Dio che non butta via due pezzi rotti…, perché la logica di Dio è tutta qua. Noi siamo continuamente in un’officina di riparazione, pensiamo alla nostra vita, pensiamo alla nostra salute…, cerchiamo di riparare, non ci buttiamo via.

La logica del Padre Nostro, quella di un Dio che ripara, che “rimette insieme” ci aiuta a capire un terzo aspetto.

Nelle invocazioni del Padre Nostro troviamo una specie di griglia che ci aiuta a vedere quali sono le cose importanti della vita. Questa preghiera, che è parola di Dio, non soltanto la leggiamo e la ripetiamo ma ci aiuta a leggere quali sono le cose importanti o forse addirittura quali sono le sole cose importanti. Se le chiediamo a Dio, le chiediamo anche alla vita. Se poi per caso le chiediamo a Dio ma non le chiediamo alla nostra vita, perché nella vita ci occupiamo di altro, allora forse il Padre Nostro ci aiuta a fare una sorta di esame di coscienza.

La prima parte del Padre Nostro: “dacci oggi il nostro pane quotidiano” esprime il bisogno dell’essenziale per la sussistenza: il bisogno di essenzialità (purtroppo spesso nella vita il pane non ci basta, abbiamo bisogno di molte altre cose non così essenziali) è importante in questo periodo di Quaresima. Ricordiamoci di questa dimensione: quello che serve è poco, ci sono tante cose inutili e superflue.

Nella seconda parte del Padre Nostro l’invocazione: “rimetti a noi i nostri debiti” esprime il nostro bisogno di accoglienza, proprio per il fatto che non ci sentiamo a posto, che ci riconosciamo peccatori, sentiamo il bisogno di essere accolti senza merito: questo è il perdono.

Qualche volta nella vita noi abbiamo bisogno di vivere l’esperienza della gratuità, di qualcuno che ci possa dire: accolgo te perché sei tu, non perché mi servi, non perché mi sei utile o perché mi puoi restituire, ma ti accolgo e basta. Ogni tanto abbiamo bisogno di gratuità per vivere. Questa sembra essere, alla luce della parola di Gesù, la seconda grande esigenza della vita, senza la quale è difficile vivere.

In questo senso il Padre Nostro può essere letto come un compendio di cosa sia essere creature nella logica evangelica, di cosa è importante cercare per vivere. Ciò che chiediamo a Dio e cerchiamo anche nella vita.

Proviamo ora a comprendere la seconda parte di questa invocazione: “come noi li rimettiamo ai nostri debitori”.

Molti si sono impegnati a capire cosa vuol dire quel “come”. Il Vangelo ci offre numerosi spunti in proposito, per esempio la famosa parabola del servo spietato:

Mt. 18, 23-34: [23]A proposito, il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. [24]Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. [25]Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito. [26]Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa. [27]Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito. [28]Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e, afferratolo, lo soffocava e diceva: Paga quel che devi! [29]Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito. [30]Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito.

[31]Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto l'accaduto. [32]Allora il padrone fece chiamare quell'uomo e gli disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. [33]Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te? [34]E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto».

 

Cosa vuol dire “come”?

  1. Quel “come” offre una sorta di esemplarità: “come” tu rimetti a noi i nostri debiti “così” noi possiamo imitarti nel rimetterli a nostra volta; è un po’ come quando Gesù dice: “amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi”, che significa “guardate me e imparate come si fa”.
  2. Quel “come”, dice una condizione di avveramento della prima parte: se tu non perdoni al tuo fratello come puoi chiedere a Dio di rimettere i tuoi peccati? Una sorta di condizione di coerenza.
  3. Il “come” ci apre a una dimensione di reciprocità, grande legge dei rapporti umani alla quale non ci si può sottrarre, fa parte della nostra natura, nel momento in cui si riceve sentiamo un impulso alla riconoscenza, al contraccambio, e quando diamo ci aspettiamo un po’ di gratitudine. Il perdono è difficile e, come dice il Papa, c’è una condizione essenziale senza la quale non potrò mai perdonare: potrai perdonare se hai avuto la grazia di sentirti perdonato. In questo senso la dinamica di reciprocità trova la sua dimensione più alta.
  4. Il “come” è una conseguenza del perdono ricevuto che mi rende capace, a mia volta, di riviverlo con gli altri; cioè non soltanto mi offre la reciprocità, ma la forza per farlo, una marcia in più. Dalla prima parte: “rimetti a noi i nostri debiti” riceviamo la forza e l’energia per vivere la seconda parte “come noi li rimettiamo ai nostri debitori”.

 

Il Padre Nostro quindi diventa una preghiera con la “P” maiuscola, infatti il Padre Nostro e il Credo sono i simboli della Fede che vengono consegnati ai catecumeni. È la preghiera che mi dice qualcosa della mia vita, che illumina il mio modo di vivere, che mi tiene sveglio su quello che è opportuno che io faccia: il pane quotidiano, la gratuità, la reciprocità, ecc.. Nelle prossime catechesi vedremo cosa vuol dire: “non abbandonarci nella tentazione” e “liberaci dal male”.